UniNômade

Quando la terra trema

Por UniNômade, em 5/8/16 | Trad. EuroNômade, publicada em 9/9/16

terratrema

Formata nel 2001, la Rede Universidade Nômade – Brasil (Uninômade) ha prodotto numerose attività, eventi e pubblicazioni negli ultimi 15 anni. Tra queste, vale la pena ricordare 5 momenti: il manifesto di fondazione, Para uma universidade nômade; la convocazione del Forum per la radicalizzazione democratica (2005), la mozione di critica della politica della casa condotta dal PT a Rio de Janeiro (2009), l’articolo O comum e a exploração 2.0 (2012) e il manifesto Uninômade + 10: tatu or not tatu (2012). Ognuno di questi testi è stato uno sforzo di reinvenzione davanti ai problemi nuovi che si presentavano. Ognuno ha tracciato una configurazione dinamica di linee di continuità e rottura rispetto alle traiettorie e relazioni della rete. Nel presente testo, elaboriamo una rottura che, se si era già data nel corso degli ultimi anni, ha bisogno di essere riaffermata in tutto il significato e la portata che questo gesto implica. Si tratta di una rottura col cadavere del post-governismo1.

É un gesto formatosi nella nostra storia di esodo sui mille piani di una politica minore. In questi 15 anni, l’Uninômade è stata attraversata da linee di intervento che, seppur non originate e neppure risolte dentro di essa, hanno dato vita alle sue produzioni. Possiamo indicare la coesistenza di due grandi linee: una che chiameremo di linea di moltitudine e un’altra che definiamo linea di egemonia. Le due linee si sono mescolate, a volte risuonando, a volte producendo a mezzo della dissonanza. Formandosi, all’inizio del decennio scorso, l’Uninômade ha seguito la linea di moltitudine, rafforzando la pratica di composizione tra una dissidenza minoritaria dentro le università pubbliche e l’iniziativa autogestita di corsi di preparazione all’esame di entrata all’università per giovani neri e poveri. Si trattava di partecipare al grande movimento in corso per la democratizzazione dell’accesso alla produzione universitaria oltre i canali istituzionali e i muri corporativi e la concezione asfittica dell’autonomia universitaria. In quel momento decidemmo di partecipare alla lotta per le politiche di determinazione di quote razziali che era propria dell’intero movimento nero, soprattutto dopo la conferenza di Durban (2001), ma che buona parte della sinistra brasiliana rifiutava, compresi i vertici del PT e alcuni dei suoi più influenti intellettuali. In questa linea si inseriscono anche le relazioni stabilite con ambiti di lotta, collettivi culturali, radio libere, mobilitazioni di venditori ambulanti (Camelôs) e indigeni, media-attivisti, oltre ad una linea editoriale pensata nelle lotte e per le lotte2.

La “linea egemonica”, parallelamente, scommetteva nella pratica di stare dentro e contro il governo Lula e questo soprattutto in tre momenti: il primo è stato la promozione della mozione contro lo sciopero corporativo dell’Università Federale di Rio de Janeiro; il secondo, in risposta alla crisi politica del 2005, la convocazione del Forum per la radicalizzazione democratica; e il terzo, l’esperienza, fatta rapidamente abortire dalla nomenklatura del PT, del Nucleo di Biolutas, nel 2011. La linea di egemonia ha portato la rete a produrre manifesti in difesa del governo Lula, visto come uno spazio politico che rendeva possibili e percorribili piattaforme di democratizzazione e politiche del comune, come i Punti di Cultura, il micro-credito popolare, l’elettrificazione rurale, la Borsa Famiglia come embrione di Reddito Universale. Queste politiche erano viste come capaci di proporre condizioni materiali che spingessero le lotte ad un nuovo livello di potenza, secondo un ciclo virtuoso di azioni istituzionali e intelligenza collettiva della moltitudine.

Questa “linea di egemonia” è diventata la più visibile e, al suo intorno, si creò un certo tipo di coesione pur nella diversità dei gruppi e delle persone che componevano la rete. Gli attriti e dissonanze tra le due linee non si risolvevano sempre in modo produttivo, perché la linea di egemonia, cioè l’effetto-governismo, finiva per imporsi. Così è successo, per esempio, quando si è tentato (senza successo) di convertire la vittoria contro lo sciopero corporativo della UFRJ in mobilitazione per le quote razziali. Oppure quando il Forum per la Radicalizzazione Democratica non riuscì in nessun modo a consolidare una interlocuzione con il Ministero della Cultura (di Gilberto Gil) e questo nonostante la disponibilità del Ministro. La stessa cosa successe quando il blocco del governismo si è messo a identificare Lula e Vargas3, decidendo di investire nell’Accelerazione della Crescita.

Quel che doveva essere un momento tattico di consolidamento delle politiche sociali diventò una strategia di pianificazione centrale e immersione negli schemi oligarchici del biopotere brasiliano: mafie elettorali, gruppi dell’edilizia dell’epoca della dittatura, “coronelismo”. Più tardi, tutto questo sarà impacchettato sotto la sigla di Nuova Matrice Economica, trovando in Dilma la sua faccia emblematica e promuovendo l’incubo di reinvenzione prometeico della tendenza che si voleva correggere per mezzo di un nuovo interventismo. Con l’assorbimento “neo-sviluppista” della crisi del capitalismo globale del 2008-2009, la modernizzazione promessa per garantire il futuro del paese, non tenne più nessun contatto con il percorso delle riforme di base o con le istituzioni difese per lo sviluppo degli anni 1950, riducendosi ad un esperimento autoritario, contro le lotte. Questa svolta divenne evidente subito dopo l’investitura di Dilma (nel 2011), rappresentato da Brasile Potenza (Brasil Maior), dai megaeventi, dal trionfo dell’agribusiness, dalla distruzione della politica di Gil nel Ministero della Cultura, dalla distopia di Belo Monte e altre mega-dighe4, dallo sgombero dei poveri, degli abitanti dei fiumi, dei quilombos (villaggi dei discendenti degli schiavi fuggiaschi), delle favela, senza contare il disprezzo per la regolarizzazione delle riserve indigene e per la riforma agraria.

Già in quel momento era data l’impossibilità che la “linea di moltitudine” continuasse a funzionare con la “linea di egemonia”, ormai condizionata dalla relazione con il blocco governista. Nonostante tutto, l’Uninômade ha insistito, promuovendo il Nucleo di Biolotte, ancora dentro la logica dentro e contro. Oggi, i leaks prodotti dall’operazione giudiziaria Lava Jato, la Glasnost che i suoi effetti stanno determinando e la Chernobyl che è stata la devastazione di Mariana (e di tutto il complesso idrologico del fiume “Rio Doce”) dimostrano che già in quel momento le due linee non potevano più coesistere in modo produttivo, anche se è stato solo in giugno del 2013 che l’Uninômade si è resa conto dell’irreversibilità della nuova configurazione. Oggi, nel 2016, è chiaro che quella composizione così diversificata della rete si manteneva anche grazie ad una certa illusione – mezzo nostalgica, mezzo identitaria, mezzo opportunista – di “essere governo”, malgrado che il PT e il governo non si fossero minimamente preoccupati delle critiche del pensiero nomade. Qui ci sta un necessario elemento di autocritica.

Ma la “linea di moltitudine” non ha mai smesso di seguire la traiettoria dell’Uninômade, anche in occasione del Manifesto per la radicalizzazione democratica (nel 2005), con le critiche al PT e alla corruzione che già conteneva. Questa persistenza della moltitudine ha fatto rivivere l’Uninômade, proprio quando la colla governista cominciava a paralizzare la dinamica produttiva della rete, la neutralizzazione degli altri collettivi e movimenti. La propensione ad uscire dal “governismo” era cominciata nel 2009, nelle collaborazioni con il movimento per la casa di Rio de Janeiro, quando Uninomade promosse due mozioni contro la politica di sgomberi di poveri condotta dal PT nella città, per mezzo dell’Assessorato alla Casa. La tendenza si è consolidata nel 2012, sull’onda delle esperienze del ciclo delle “Acampadas”, ispirate al 15M spagnolo e all’Occupy Wall Street, come la OcupaRio (nella Cinelandia) e la Ocupa dos Povos (nella conferenza delle Nazioni Unite, Rio + 20), e con le successive riflessioni teorico-politiche nel corso della serie di Colloqui Brasil Menor, in contrappunto all’incubo Brasil Maior (Brasile Potenza)5). In quell’anno, fu chiaro come, per appropriarsi dei fondi corrotti distribuiti dal “governismo”, la “linea egemonica” voleva fare delle reti culturali/digitali e del lavoro precario non il terreno di nuove lotte, ma un terreno di realizzazione post-moderna dello sfruttamento. Infine, nel mezzo del Vertice dei Popoli, e malgrado le incomprensioni che lo caratterizzarono, nel seminario terra a terra6 la “linea di moltitudine” si è aperta per ibridarsi all’affermazione amerindia del prospettivismo e alla critica feroce all’accelerazionismo economicista a cui il governo Dilma aveva aderito7.

Finché, in giugno del 2013, la terra tremò. Imballata da un ciclo globale di lotte, la moltitudine è scesa in strada per lottare nelle metropoli e ha fatto esplodere tutte le ambiguità e tutte le coesistenze.  La linea della moltitudine è sbocciata in un insieme di forme fino ad allora sconosciute, in ogni caso al di là delle variabili egemoniche connesse al “governismo”. Quest’ultimo non poteva sopportare queste nuove dimensioni di lotta, perché era coinvolto e complice dei peggiori dispositivi della politica molare. La forza di giugno del 2013 si è così scontrata con la posizione reazionaria e paranoica del governismo che aveva finito per trasformare la lotta per l’egemonia in una commedia ideologica. Le idee – sinistra, sviluppismo, keynesianismo – han cominciato a funzionare come placebo, in una zona indiscernibile tra utopia e cinismo, in ogni caso impotente. L’unica potenza che il governismo ha saputo organizzare, per mezzo dello Stato, è stata la criminalizzazione delle lotte, la neutralizzazione dei suoi elementi di autonomia e la disseminazione della paura, fino al climax della repressione durante la Coppa delle Truppe (la Coppa della FIFA, nel 2014) e nella campagna di decostruzione di tutto ciò che tentasse di opporsi al progetto governista di egemonia.

La repressione di giugno viene da una decisione cosciente del governo del PT che nessun realismo politico riesce a scusare. Una decisione sostenuta da alcuni intellettuali che recitano come funzionari della propaganda più che come pensatori. Invece di essere metabolizzate verso un nuovo impulso, le impasse furono semplicemente negate, dicendo che si trattava del risultato di un’onda reazionaria, dei media cattivi e delle terribili battute di arresto – come i White Walkers di Game of Throne: assolutamente altri, vengono dal nulla a distruggere la “civiltà petista”.  Il risultato, prevedibile e previsto, è stato di spingere la giusta indignazione in braccio a dei gruppi come il Movimento Brasil Livre (di nuova destra neoliberale).

Alla fine, la rottura si è consumata nelle elezioni di ottobre del 2014. La “linea di egemonia” si è diretta  verso l’adesione semi-nascosta del “voto critico” per la rielezione di Dilma e Temer – un altro nome per la medesima strategia di chiusura delle brecce aperte dalle lotte. A partire da quel momento, la commedia ideologica del governismo ha moltiplicato diverse campagne, ognuna più breve dell’altra e senza consistenza, sempre intorno al “voto critico”: Fuori Cunha, i vari frontismi “popolari”, il no al colpo di stato (#naovaitergolpe) fino ad arrivare al Fuori Temer associato al Torna Dilma – o Lula nel 2018. La retorica del golpe pretende di paralizzare le lotte in nome del ritorno del PT al governo. Nonostante, paradossalmente, gli sviluppi dell’evento di giugno del 2013 han finito per produrre linea minoritaria anche nelle manifestazioni più simpatiche al PT. Nella misura in cui l’eterno ritorno dell’identico, sia Dilma o Lula, diventa un ritratto appeso alla parete, è possibile che le linee molecolari prodotte dal giugno si liberino una volta per tutte del post-governismo, e possano così dar luogo ad una dinamica espansiva.

Un breve paragrafo su Marina nel primo turno delle elezioni di ottobre (2014). L’Uninômade non ha preso posizione perché scelse di non tentare di unificare le opzioni che variavano dal voto critico (a Dilma), all’astensione/voto-nullo, passando per Marina. Il proposito era di non scommettere più su un´altra linea di egemonia. Indipendentemente da tutto ciò, la campagna di decostruzione riservata alla candidatura di Marina dal governismo e dalle sue linee ausiliari è stata sintomatica. Marina è stata due volte ministra di Lula e rappresentava una resistenza consistente al progetto neosviluppista che Lula e i grandi gruppi dell’immobiliare civile avevano deciso di metter nelle mani della sua “assistente esecutiva”, Dilma. Marina funzionava come un contrappeso dentro al governo, allo stesso modo che gli indios e gli operai delle dighe e degli stadi frenavano il nuovo regime (accelerato) di sfruttamento.

Da un lato, molti non han trovato neppure strano dal punto di vista democratico che, dopo il terremoto di giugno del 2013, la candidata che in tutti i sondaggi pre-elettorali più minacciava il blocco governista fosse stata eliminata da un’incredibile decisione amministrativa. Gli stessi che, davanti alla moltitudine, gridavano contro il fascismo della classe media, hanno trovato normale, “legale”(in portoghese “legal” significa anche simpatico), la decisione da parte delle istituzioni più anti-democratiche: i cartórios (notai privati che hanno la concessione “reale” per gestire l’anagrafe e tutti i registri ufficiali) e la magistratura elettorale. Gli stessi che adesso attribuiscono il governo post-impeachment di Dilma a un colpo di stato, minimizzano il fatto che sono loro che han votato Temer e han partecipato ad una campagna di egemonia che ha saturato l’ambiente politico – soprattutto quello di “sinistra” – di binarismi, diffamazioni, linciaggi virtuali. Non si tratta qui di decidere se Marina sarebbe stata un’alternativa – come se le alternative si trovassero a portata di mano negli scaffali di una macropolitica esaurita, – ma di trarre le conseguenze da questo episodio. Quando Dilma si è rieletta e cominciò a fare esattamente il contrario di quel che diceva il suo marketing, non c’erano più condizioni per far ingoiare la truffa elettorale. In pochi giorni, già onerato da un enorme fardello di errori strategici e tattici, il governo rimase paralizzato sotto il peso delle sue menzogne.

 

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Prima di tutto, vogliamo il ritorno al lavoro degli spazzini licenziati dal consorzio mafioso PT-PMDB di Rio de Janeiro.

Non c’è nessuna onda conservatrice nel mare di violenza e ingiustizia che caratterizza il paese anche dopo 14 anni di governo federale del PT. Al contrario, la trama della terra tremò e continua a tremare. Gli spazzini (Garis) di Rio continuano a organizzarsi nel Circolo Laranja (dal colore arancione delle loro tute di lavoro) malgrado la repressione del governo PT-PMDB, mentre i collettivi di giovani occupano le scuole medie in varie città del Brasile, le periferie e i popoli indigeni continuano a resistere alla politica di sterminio. La Nova Matriz Econômica (nuova matrice economica), fortunatamente, è stata smantellata. L’operazione Lava Jato (di repressione della corruzione) minaccia tutta la casta nel suo insieme.

La via uscita non verrà dal Brasil Maior (Brasile Potenza), ma neppure verrà semplicemente dagli arresti in massa di corrotti e corruttori, senza la costruzione di nuove istituzioni e la rigenerazione delle esistenti, a partire dall’impeto di nuove lotte e indignazioni. Non ci sono scorciatoie, né la via economicista, né la via punitiva. In questo senso, la lotta dei garis (spazzini) costituisce una prospettiva molto interessante. É nella lotta degli spazzini di Rio che il movimento di giugno del 2013 continua vivo e allo stesso tempo è attraversato da nuove potenzialità e difficoltà. Gli spazzini sono uno dei più potenti sviluppi di giugno, hanno fatto della lotta vittoriosa di categoria in febbraio del 2014 il terreno di costruzione della loro autonomia, in risonanza con la metropoli mobilitata dopo giugno. Licenziati a centinaia dal consorzio mafioso PT-PMDB che governa Rio de Janeiro, non han potuto usufruire del conforto di tradurre i sogni sul divano, le piccole presunzioni accademiche e i clichés paranoici in analisi politica.8

Che cosa stanno facendo allora gli spazzini? In primo luogo, un lavoro massacrante per pulire la città, produrre la sua salute ambientale. In secondo luogo, sviluppare il frammento di autonomia che hanno conquistato in termini di autovalorizzazione. Per questo, hanno adottato due pratiche: una di critica della rappresentanza; l’altra di critica della ristrutturazione-modernizzazione. Nella crisi della rappresentanza, il Circolo Laranja ha deciso di presentare candidati propri per il consiglio comunale (nelle prossime elezioni municipali do ottobre del 2016). Di fronte all’automazione della pulizia urbana, determinata dalla forza delle sue lotte, gli spazzini devono affrontare la sfida di trasformarsi in agenti di salute ambientale, in particolare nelle favela che vivono in situazione permanente di emergenza sanitaria: mancanza di reti di fogne, spazzatura a cielo aperto, endemia di zika, dengue, chikunguya ecc.

La crisi della rappresentanza e la trasformazione del lavoro (automazione) sono, allo stesso tempo, prodotto delle lotte e impulso per nuove lotte. Attraversare la rappresentanza con una candidatura indipendente è un uno dei modi di affrontare la repressione ma anche di costruire la battaglia per lo sviluppo stesso della città: che fare della modernizzazione prodotta dalla lotta? Il punto di vista degli spazzini ci sembra, in effetti, uno delle migliori maniere di cogliere i conflitti reali che abbiamo davanti a noi: gli effetti futuri della Lava Jato e le riforme di Temer e Lula. In questo senso, vogliamo sottolineare la partecipazione di Uninômade-Brasile alla costruzione di altri circoli di cittadinanza e a piattaforme cittadine per innovare nella campagna municipale del 2016, contagiati dei municipalismi costituenti di Barcellona e Madrid9.

Sperimentata nel 2011 nell’episodio dello sciopero dei pompieri e della resistenza del villaggio indigeno (Aldeia Maracanã), la rottura divenne definitiva nel giugno del 2013. Giugno è stato anche l’indignazione contro i grandi lavori e le spese scriteriate, contro la priorità date agli stadi a scapito della salute e dell’educazione, contro una rappresentanza basata sullo sfruttamento e la corruzione sistemici. Basti ricordare che a Rio, oltre alla campagna “Dov’è Amarildo”, alle occupazioni e del “Fuori Cabral” (governatore dello Stato di Rio, membro del partito di Temer e alleato di Lula e Dilma), giugno è stato anche un movimento contro la corruzione radicata nel sistema politico-economico (per esempio contro la riforma costituzionale che doveva eliminare l’autonomia di investigazione dei giudici sui “politici”). Il terremoto di giugno ha scosso i bunkers del marketing elettorale, aprendo una breccia nella quale si infilerà, più tardi, l’operazione Lava Jato.

Così, nonostante il lato giustizialista, la Lava Jato pone questioni inevitabili sulla logica sistema della politica brasiliana. Se la restaurazione – a destra a a sinistra – è stata un successo sul piano della distruzione degli elementi più costituenti del sollevamento del 2013, l’operazione Lava Jato è riuscita a prolungarne alcuni effetti, spinta da mobilitazioni di piazze e reti di milioni di cittadini indignati. Oggi, l’operazione è arrivata ad un punto critico, con due sviluppi possibili: da un lato, la Lava Jato mira il mondo politico nel suo insieme, il parlamento stesso in quasi sua totalità. Dall’altro, si sta tentando replicare l’operazione a Rio de Janeiro – con gli arresti dello schema di Cabral e la condanna di un ammiraglio coinvolto nello scandalo della centrale nucleare -, a São Paulo – con l’arresto di un ex ministro di Lula e Dilma per il furto sui debiti dei funzionari pubblici – e a Brasilia, dove il procuratore Ivan Marx (sic) ha formalmente messo Lula sotto inchiesta. La destituzione di Dilma e la campagna contro il “golpe” offusca la preparazione di un altro scontro: tra la Lava Jato e la casta politica annidata nei principali partiti e poteri. Da una parte, la Lava Jato è uno dei risultati di giugno. Dall’altra, anche i suoi meccanismi sono interni alla casta. Non c’è niente da condannare, mas neppure niente da festeggiare. La questione materiale che abbiamo oggi di fronte non è di sapere quel che la Lava Jato è in fondo, secondo qualche modello di quello che dovrebbe essere, ma quello che si può fare di questa, dei suoi effetti e risultati, della sua potenza (anti)politica e apparente legittimità sociale.

Dopo la sua conferma (e il definitivo allontanamento di Dilma), il governo Temer tenterà di implementare 3 assi di riforme abbastanza perverse per i lavoratori e i poveri: la riforma delle pensioni, l’imposizione di un tetto massimo di 10 anni per la spesa pubblica e la flessibilizzazione delle leggi del lavoro (CLT). A questi tre assi, segue un piano di privatizzazioni, molte già in andamento, e chiamate eufemisticamente – come già faceva il governo del PT – “cessione di attivi”. La riorganizzazione della coalizione mafiosa al potere ha avuto luogo più per il fatto che Dilma non aveva la forza per realizzare queste riforme che per bloccare un’eventuale svolta sinistra, che non fu neanche pensata. Che sia chiaro: queste riforme erano parte del programma reale della Presidente per il secondo mandato, come Dilma lo mostrò, dopo il fiasco della nova matriz econômica, con l’ajuste desajustado (l’austerità inefficace) que ha immerso il paese alla peggiore depressione economica della sua storia10. Quel che è peggio è che, adesso, queste riforme proposte da Temer trovano la loro legittimità nella catastrofe economica che è stato il periodo dilmista, tra errori strategici e frequenti pasticci. Mentre il tetto della spesa pubblica non trova consenso neppure tra gli economisti neoliberali, perché è una questione che dipende dalla ripresa della crescita, abbiamo bisogno di opporre alle altre due riforme, pensioni e flessibilità, una seconda via, un’altra riforma che le riconfiguri dentro una nuova forma di protezione sociale delle nuove forme di precarietà e flessibilità e di quelle che già esistono e fanno parte della tradizione neoschiavistica brasiliana. Il dibattito che vogliamo promuovere è sul reddito universale incondizionato e il Comune come gestione e accesso radicalmente democratico ai servizi e alle istituzioni, spinto da un nuovo ciclo costituente di lotte che ha nelle occupazioni di scuole (ocupas das escolas) e nella mobilitazione indigena due riferimenti fondamentali di potenza e autonomia.

Se l’ambiente é saturato da dispositivi di cattura e binarismi sterili, se il rigor mortis del governo del PT contamina le reti del post-governismo, come il veleno inoculato che sopravvive al serpente, è necessario un gesto di decompressione. Viviamo un momento-chiave nel quale, senza assorbire le impasse in modo produttivo, la ripetizione dello stesso farà giri senza fine in torno ai fantasmi. Mettersi non ai margini di un processo morbido, ma fuori, perché è lì che stanno gli indignati e i molti. In realtà, abbiamo già fatto questa rottura, quando abbiamo seguito le linee ambivalenti e sconfortevoli, per niente terapeutiche, delle moltitudini. Vogliamo oggi riaffermare questa rottura in tutta la sua portata, perché essa è ampia e irreversibile.  Ancora una volta, una università nomade non può aver paura di nomadizzare.

 

 5 agosto 2016 – seguono una cinquantina di firme della rete

NOTE


  1. Per “governismo” si intende l’adozione sistematica di una linea macro-politica (di autonomia del politico) che assume l’importanza di stare nel governo come contraddizione fondamentale. Questo significa che, anche quando si distanza dall’adesione elettorale più diretta e accoglie una agenda più complessa di critiche e riserve, il “governista” assume che, in ultima istanza, il campo politico si divide in due, secondo una logica di amico e nemico, egemonia e contro-egemonia, intorno al progetto di potere del governo Lula/ Dilma (eletto allo statuto di vera e propria “civilità“). La versione più caricaturale del governismo appare nella rete di blogs sedicenti “progressisti” rifornita da fondi pubblici di pubblicità, in contrapposizione al nemico annunciato come “Partito della Stampa Golpista”(PIG nella sigla portoghese). La versione più sofisticata si da con gli infiniti volteggi dialettici del “voto critico” e con la premessa che il “lulismo” è qualche cosa da salvare come un bene in se (concetto ideologico) e non come quel qualcosa con il quale si fa qualche cosa. In ambedue le versioni, acritica e critica, il governista giustifica l’adozione del campo politico sovrapponendolo, in nome di una maggior o minore inserzione, alla lotta dei poveri. Il post-governismo è il risultato inerziale del governismo dopo l’impeachment del 2016, ossificato dal discorso falso del colpo di stato, con qualche penetrazione nelle università, in settori della cultura istituzionalizzata, nei movimenti sociali tradizionali e in partiti dell’opposizione di sinistra. 
  2. Ci riferiamo a due pubblicazioni regolari della rete, la Revista Lugar Comum, con 47 numeri pubblicati, e la Revista Global Brasil, con 16 (tutti i numeri di ambedue sono disponibili per download gratuito nel sito www.uninomade.net ). Sia l’una che l’altra hanno un numero di ISSN e si propongono di stare tra le lotte e la produzione accademica. Ci riferiamo anche a varie collane di libri che sono state pensate a partire dalla produzione in rete, come Política no Império o Política della Moltitudine, in partenariato con Record e Anna Blume, rispettivamente. L’Uninomade-Brasile mantiene inoltre un sito proprio site próprio, alimentato settimanalmente da articoli, interviste, agende di intervento, oltre a profili nel twitter e un grupo no Facebook con più di 13 mil iscritti. 
  3. Identificare il governo Lula a Vargas denota un approccio problematico del periodo varguista dal 1930 al 1945, quando cominciò il primo ciclo sviluppista del paese, sulla base del modello di sostituzione delle importazioni. La lettura dell’era Vargas da parte del governismo continua a basarsi sul principio del dono, che il dittatore avrebbe fatto delle concessioni in termini di salari e diritti del lavoro, oltre al minimo naturale che sarebbe offerto dal mercato capitalista. Allo stesso modo, il governo Lula avrebbe consolidato il rapporto di forze per aumentare il salario reale oltre quel che si potrebbe attendere da un governo neoliberale, imponendo un riformismo di fronte all’avidità per profitto del capitalismo. La tese del “dono varguista” è già stata ampiamente contestata da Francisco de Oliveira nel suo Crítica da razão dualista (1972), dove dimostra che le politiche di quel periodo approfittarono di una congiuntura internazionale favorevole per riorganizzare le base dell’accumulazione de capitale, dall’agrario esportatore all’industriale. Per questo, il progetto del Estado Novo non dipendeva solo dall’aggregare nuove classi al processo politico (i ceti medi urbani), ma anche dal regolare i fattori di produzione, al fine di ricostruire i circuiti del plus valore che formano il metabolismo dell’economia industrializzata. Alla fine, l’aumento dei salari indica un cambiamento nella dinamica produttiva, ma non automaticamente significa riduzione del tasso di sfruttamento o la redistribuzione del reddito. Mutatis mutandis, questa tesi potrebbe essere usata oggi per capire il lulismo e la formazione della cosiddetta “nova classe media” nel nuovo regime flessibile di accumulazione, per abbattere il discorso del PT che identifica il governo Lula alla conquista di diritti da parte della popolazione. In realtà, quel che realmente importa nelle politiche luliste di transferts di reddito consiste in un cambiamento qualitativo che una riappropriazione di queste politiche permette, il che può tradursi in azioni contro il governo stesso e il PT. 
  4. Vale la pena sottolineare che la grande diga di Belo Monte (nell’Amazzonia), oltre ad un crimine socio-ambientale di proporzioni gigantesche, sintetizza il vizio che non è secondario o solo un “eccesso” dei governi Lula/Dilma, ma uno dei suoi punti più strategici. L’idroelettrica ha distrutto il fiume Xingu e i suoi popoli indigeni rivela con chiarezza il modus operandi della coalizione PT e PMDB, dall’ecocidio e il massacro degli indios, a tangentopoli per finanziare campagne elettorali e tutto una fauna di politici, ministri e lobbisti 
  5. La serie di colloqui organizzata da Uninômade en partenariato con la Fondazione Casa de Rui Barbosa ha luogo mensalmente dal 2007 (fino ad oggi, 2016 
  6. Una cronaca intellettuale sull’evento terra a terra, em Devir-pobre, devir-índio: http://www.idlocal.com.br/a-potencia-revolucionaria-dos-pobres-e-dos-indios?locale=pt-br 
  7. Tra tutti, A sociedade contra o estado e o mercado, Moysés Pinto Neto. 
  8. Compresi quello che, alla chiusura congiunturale, rispondono: “micropolitica”. L’aspirazione alla micropolitica nasconde una macropolitica conformista, con una strana complicità tra isole teoriche di radicalità e la difesa di isole istituzionali di conforto, ciò funzionava bene col governismo del PT. Non sono pochi gli intellettuali che spargono lodi senza fine al mondo del macchinico e del subrepresentativo, ma non perdono nessuna opportunità di annunciare l’adesione a un campo politico, mettendo i dissidenti dall’altro lato. La battaglia per l’egemonia con la quale si giustifica il governismo critico, alla fin fine attraversa quella per il meschino mercato accademico. 
  9. Il lavoro di ricezione degli sperimenti di Podemos, Syriza e delle piattaforme municipaliste é stato presentato da Bruno Cava e Sandra Arencón (orgs), Podemos & Syriza: experiências democráticas na borda das lutas, ed. Annablume, 2015. 
  10. Per esempio, il Progetto di Legge n.º 257/16, sul rifinanziamento urgente del denito degli stati è condizionata ad una austerità anti-funzionari pubblici e che adesso scandalizza il pos-governismo, è stato proposto in regime di urgenza in marzo, così come la legge antiterrorismo e la regolamentazione che penalizza le manifestazioni spontanee di strada, tutto inviato in regime di urgenza da Dilma e dal suo governo. 
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